Cronistoria della Guerra in Yugoslavia
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Guerra in Yugoslavia
Diario sotto le Bombe
di Aleksandar "Sasa" Zograf
Sasa e Gordana ci raccontano come si vive sotto le bombe, giorno per giorno, attraverso le loro e-mail. Aleksandar "Sasa" Zograf è un autore di fumetti underground, pubblicato in una decina di paesi.
Di Zograf in Italia è uscito l'albo "Diario" (Centro fumetto Andrea Pazienza) sulla guerra civile nella ex-Jugoslavia e le sue storie vengono regolarmente pubblicate sulla rivista "Kerosene", diretta da Dario Morgante, che riceve e traduce le e-mail.
Mercoledì 24 marzo 1999, ore 23:19
Saluti dai vostri amici in Serbia!
Cari amici,
sto scrivendo durante i raid aerei… la Nato ha attaccato Pancevo e alcuni villaggi vicini oltre che a dei quartieri periferici di Belgrado, e molte altre città della Serbia e del Monte Negro… Io e Gordana abbiamo deciso di rimanere nella nostra casa… Ho provato a mandare una e-mail un'ora fa, ma il collegamento si è interrotto per un'esplosione… L'esplosione non era vicino alla nostra casa ma ha colpito la Utva, una fabbrica di aerei, la stessa di cui ho parlato in "Alas n. 3" diversi anni fa… Questa volta non hanno colpito le installazioni della Utva nel nostro quartiere ma dall'altra parte della città… Riesco a vedere ancora le fiamme mentre scrivo queste righe. Non vi preoccupate! Stiamo bene! I ragazzi di "Tv Pancevo" (una emittente locale) sono stati lì e hanno già diffuso le immagini girate dentro la fabbrica in fiamme! Non ci sono state vittime in questa occasione, almeno per quanto ne sappiamo finora… Le sirene antiaeree hanno suonato per l'ultima volta meno di venti minuti fa… Molta gente è ancora per strada, ma siamo sorpresi che il panico non sia dilagato… Dio, è così prosaico… Ho appena visto dei ragazzi di 16-17 anni seduti sulle altalene del piccolo parco vicino al nostro palazzo… E quelle fiamme in distanza… È così stupido. I ragazzi dei "Nup" (il gruppo musicale del villaggio qui vicino) hanno chiamato 20 minuti fa per salutare tutti i nostri comuni amici… È molto difficile prendere la linea se provate a telefonare… Nel vicino villaggio di Kacarevo ci sono state delle esplosioni, ma ancora non sappiamo cosa sia successo… Non so se sarò in grado di spedire nuovi messaggi, o se potrò connettermi, ma volevamo solo dirvi che non vi dovete preoccupare e che stiamo bene. Scusate per gli errori di battitura ecc,
Love you all
Sasa and Gordana
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Tino Berti
Fra tutti noi deportati degenti nel sanatorio di Vechelade, Eric era il più giovane. Avrà avuto si e no 17 anni. Alto, allampanato, biondo, con degli occhi chiarissimi, avrebbe potuto sembrare un giovane da manifesto della razza ariana se non fosse stato per quella leggera incurvatura che già denunciava, a quella giovane età, malattie e sofferenze.
Non mi ero accorto della sua presenza nel sanatorio, non avevo mai avuto l’occasione d’incontrarlo. Verso la metà di giugno del 1945 gli venne notificato l’ordine di trasferirsi in un sanatorio della Westfalia, vicino a Osnabrueck, ma egli rifiutò con con tutte le sue forze. Si trovava bene con noi, aveva legato con dei compagni italiani, tutti ex prigionieri di guerra, ed un giorno venne da me, accompagnato dai suoi amici italiani, che perorarono la sua causa e mi pregarono – dato che conoscevo la lingua – di intercedere presso il prof. Martin, nostro primario e nel contempo direttore del sanatorio, affinchè gli fosse concesso di rimanere a Vechelade.
Dopo alcune titubanze e dopo avergli spiegato che quello in cui sarebbe stato trasferito era un sanatorio vero, non un insieme di baracche attrezzate per l’emergenza, come quello in cui ci trovavamo, viste le lacrime che gli inondavano il viso, il prof. Martin si commosse e promise di aiutarlo.
Per tutta risposta Eric gli si gettò addosso e lo abbracciò, tanto che il primario mi chiese:” Ma cosa hanno fatto a quel ragazzo i suoi compagni italiani dal momento che lo vedo sempre così attaccato a loro?”
“Veramente non Le so rispondere” gli dissi” Io, è il primo giorno che lo vedo”.
Tino Berti
L’incontro avvenne casualmente nella confusione che precedette la formazione della colonna davanti al cancello del Lager di Auschwitz. Si ritrovarono in quattro, tutti giovani, di nazionalità diverse, ad attendere che l’ordine di incolonnarsi e partire venisse dato da quella SS che sembrava di grado più elevato. L’italiano, Pio, un torinese, disse: “dato che noi siamo giovani, cerchiamo di stare assieme”. Furono tutti d’accordo. Luis, l’olandese e il francese Jean, entrambi ebrei si conoscevano da tempo avendo lavorato assieme nella fabbrica di gomma sintetica, la famigerata Buna emanazione del grande colosso chimico IG Farben. L’italiano ed un belga, ebreo anche lui, non si erano mai visti. Facevano parte dell’immenso universo che il Lager di Auschwitz conteneva e che rappresentava tutta l’Europa.
Luis, l’olandese, il più giovane di tutti, cominciò a guardarsi le scarpe e quelle dei suoi improvvisati compagni. Storse un po’ la testa e dichiarò al belga: “speriamo che non ci sia molta strada da fare, perché camminare con i tuoi scarponi con la suola di legno sulla neve sarà dura”. L’italiano che non comprendeva alcuna delle lingue parlate nel Lager, ma che aveva assorbito durante quei mesi di deportazione la “lingua” del Lager, si fece spiegare cosa avesse detto Luis. Cosa che dovrà fare ogni volta che ci sarà un discorso impegnativo, cioè che non tratterà parole come pane, acqua, incolonnarsi per cinque, levarsi il berretto, ecc. Finalmente, dopo aver patito tutto il freddo possibile dietro il cancello del Lager, la colonna si mosse, oltrepassò il cancello e prese una direzione che per quei quattro amici ed anche per la stragrande maggioranza dei deportati che componevano la colonna era completamente nuova.
Non so quanto si sappia oggi in Italia ed in Germania sulle persecuzioni cui furono soggetti gli aderenti a questa relativamente nuova religione[2] da regimi totalitari come quello fascista e quello nazista.
Le persecuzioni fasciste furono opera di dilettanti, se paragonate a quelle naziste che si scatenarono sui Testimoni di Geova in tutta l’Europa occupata dalle armate naziste. Le persecuzioni operate dal fascismo erano anche legate al fatto che i Testimoni di Geova agivano in un paese dove la religione cattolica era dichiarata religione di Stato, dove il clero, ormai legato mani e piedi al regime, vedeva la loro opera proselitismo come una temibile concorrenza su quello che potremmo eufemisticamente definire lo stesso “mercato” e che quindi tentava di ostacolare in tutti i modi, non rifuggendo gli organi della chiesa di segnalare o denunciare alla polizia gli apostoli della nuova religione.
Prima del 1927 non troviamo negli archivi italiani alcuna menzione dei Testimoni di Geova eccetto una sentenza emessa dal Tribunale militare di Alessandria contro Remigio Cuminetti che nel 1917 rifiutava di prestare servizio militare in quanto Testimone di Geova.