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“L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità”, saggio antropologico-archeologico di David Graeber e David Wengrow
Quasi dieci anni di ricerche, iniziate “come un gioco” e “con uno spirito un po’ beffardo” rispetto agli impegni accademici più seri, ma poi come spesso accade, alla luce degli ultimi trent’anni di nuove prove archeologiche, incuriositi dal desiderio di scoprire come queste avrebbero cambiato le loro convinzioni sulla storia antica dell’umanità, in particolare sulle origini della diseguaglianza sociale, hanno prodotto questo saggio poderoso nelle ricerche e rivoluzionario nelle scoperte. Gli autori sono David Graeber, antropologo e docente alla London School of Economics, attivo nel movimento Occupy Wall Street, del 1961 e deceduto nel 2020, e David Wengrow, docente di Archeologia comparata allo University College di Londra, del 1972, ricercatore sul campo in varie parti dell’Africa e del Medio Oriente, premiato nel 2014 dalla rivista accademica “Antiquity”. La spinta ad intensificare le ricerche nasce dalla considerazione che nessun studioso aveva intrapreso il lavoro di sintesi sugli aspetti più significativi delle più antiche civiltà umane, sulle prime città senza governo verticistico, sui processi decisionali in Africa e nelle Americhe, o sui confronti fra le cosiddette “società eroiche”. Non tanto per negligenza o per una certa reticenza degli studiosi, ma perché, secondo i nostri autori, mancava un linguaggio appropriato per definire i processi sociali e le esperienze di gestione del potere e della amministrazione pubblica. Ad esempio, si chiedono Graeber e Wengrow, come si può chiamare una “città senza strutture di governo verticistiche”, e che significato assumono alla luce delle nuove ricerche le parole “democrazia” o “repubblica” o “civiltà”? Una città può definirsi “ugualitaria”? E che cosa comporta, in termini di prove da apportare, sostenere questo concetto o dimostrare la mancanza di elementi di diseguaglianza sociale per ciò che riguarda la vita degli abitanti, negli aspetti famigliari e nei riti religiosi? Dovremmo dedurre che non esistono “società egualitarie”, tranne alcune comunità di foraggiatori? Questo ci porterebbe a fare di ogni erba un fascio, ma non ci permetterebbe di rendere conto della ricchezza delle società che in ogni angolo della terra si sono sviluppate prima della cosiddetta rivoluzione agricola, dal Medio Oriente all’America del Nord e a quella del Sud, le civiltà azteche, maya, incas, in Asia centrale, lungo i corsi d’acqua cinesi e indiani, nelle steppe russe e ucraine. Qui sta la loro innovazione nell’impostazione dell’esame dei dati che le varie scoperte archeologiche e antropologiche hanno fornito. Nel metodo che rovescia le concezioni usuali, abbandonando le polarità della uguaglianza e della diseguaglianza, se non a fronte delle ricerche che consentono una variazione sostanziale delle convinzioni fin qui maturate. Sulla domesticazione dei cereali e sulla conseguente comparsa delle aristocrazie “viziate”, degli eserciti regolari, sulla vita urbana e sulla schiavitù, sulle società libere o relativamente libere. I sociologi sbagliano a scrivere del passato come se quello che è successo avesse potuto essere previsto in anticipo. E’ come se noi volessimo scrivere del futuro prevedendo quello che succederà fra 50 o 100 anni. Allora se andiamo ad analizzare le burocrazie, i sistemi di governo in cui le donne detenevano la maggior parte delle cariche pubbliche o la gestione degli affari dei beni basata sulla cura anziché sulla proprietà e sull’estrazione, forse è ipotizzabile una possibile scelta di strade alternative rispetto a quelle finora seguite, per esempio maturando concezioni diverse sul senso della civiltà umana, l’asservimento di massa, il genocidio, i campi di prigionia, il patriarcato e i regimi di lavoro retribuito. Una prospettiva che non riguarda solo il passato ma il futuro da ri/costruire. Rizzoli editore, Milano, 2022, pp. 727, € 28,00.
Paolo Rausa
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